La confessione non è figlia del pentimento

La confessione non è figlia del pentimento

Due esperti analizzano il delitto di Monte Carasso.

Cosa scatta nella mente di chi ha commesso un crimine e a distanza di tempo sente il bisogno di confessarlo? Gli psichiatri lo hanno spiegato con un esempio: è come premere sull’acceleratore di un’auto incagliata nel fango. Più si accelera più si affonda e più si affonda più ci si sente soli davanti alla propria coscienza. Ed è probabile che questo abbia provato il pompiere di 50 anni che nel luglio del 2016 a Monte Carasso ha ucciso la moglie. E, come è emerso al processo che si è celebrato nei giorni scorsi (la sentenza è attesa per lunedì 15 aprile), due anni dopo, in seguito ad un colloquio con un sacerdote, ha deciso di costituirsi (il caso era stato archiviato come un suicidio).

“Questo genere di comportamento spesso scatta quando una persona che ha commesso qualcosa di grave si sente minacciata”, spiega Franco Posa, criminologo, esperto di neuroscienze forensi e direttore scientifico dell’International forensics consulting team (Ifct) con sede a Bellinzona -. E si sente minacciata non tanto perché deve fare i conti con la propria coscienza ma perché pensa possano spuntare da un momento all’altro nuovi elementi che secondo lui potrebbero far riaprire il caso”. E allora giocando d’anticipo queste persone voltano pagina. “Ma in realtà – spiega il criminologo – dietro tutto questo, come dicevo, ci sono elementi che mettono in gioco la certezza di averla fatta franca”.

In questo caso, come è emerso nel corso del processo e come è stato sottolineato dall’avvocato Deborah Gobbi che rappresenta l’accusatore privato, l’uomo aveva evidentemente sempre pensato che il figlio sospettasse qualcosa, in qualche modo intuisse che la morte della madre non era archiviabile come un suicidio. “Quando scatta la confessione dopo anni – riprende Franco Posa – entrano in ballo elementi molto soggettivi. E la paura che qualcuno possa avere anche un piccolo elemento di prova, il timore che i parenti della vittima scoprano il segreto e possano andare dal magistrato, alla lunga diventa un nodo da sciogliere”.
Il pompiere che ha confessato due anni dopo il delitto della moglie è stato spinto, secondo la ricostruzione del procuratore pubblico Chiara Borelli, da un movente economico. Gli oltre tremila franchi di alimenti che doveva passare mensilmente alla moglie. “Ha ucciso per soldi”, ha detto nella sua requisitoria Borelli. E ha ucciso, secondo l’accusa, con la complicità della seconda moglie, una russa accusata anche lei dell’omicidio. E mossa, è stato detto, “dall’avidità di denaro”. Poi, in lui, nell’imputato, qualcosa è cambiato. Probabilmente il rimorso gli ha dato una scossa.

“In questi casi prima scattano meccanismi autogiustificativi”, spiega Cristina Brasi, psicologa giuridica e analista comportamentale forense (è specializzata in Interpretative system of facial expressions, in pratica dall’espressione del viso coglie le emozioni e la sincerità di una persona) -. Meccanismi autogiustificativi, dicevo, che consentono di andare avanti per qualche tempo trascinandosi dietro un fatto grave. Si chiama disimpegno morale. È quel meccanismo che consente appunto a una persona di trovare una giustificazione, o meglio autogiustificarsi davanti a una condotta ritenuta non morale. Questi meccanismi li abbiamo tutti. Ma in contesti di devianza si esprimono in maniera più marcata e sino ad un certo punto possono tutelarci. Il classico esempio è quello dei ragazzi che commettono un crimine di gruppo. E pensano: non sono stato io da solo. C’è, insomma, una connessione di gruppo e non del singolo, c’è una responsabilità condivisa che fa sentire meno colpevoli”.
Nel momento in cui si commette un atto, dalla semplice bugia sino ad arrivare a un omicidio, questi meccanismi consentono di mantenere un equilibrio psichico. “Naturalmente – aggiunge Brasi – molto varia dalla struttura morale differente di ogni persona. Non si può generalizzare, dipende molto dalla propria dimensione psicologica. C’è chi crolla prima e chi crolla dopo tanto tempo, come è capitato evidentemente al pompiere. Poi, c’è chi non crolla e non confessa mai. Perché ci sono personalità, ad esempio quella di un sadico, che difficilmente lo portano a venire allo scoperto perché in questo caso ha piacere a cagionare dolore e sofferenza”.

La procuratrice Borelli ha parlato di sincero pentimento. E lo stesso imputato ha chiesto perdono. Anche qui è scattato il rimorso? “Il rimorso – dice Posa – viene usato per mettere le mani avanti, perché chi commette questo genere di delitti ha una totale assenza di empatia e non ha la capacità di rispondere nemmeno al suo difetto di coscienza che è venuta a mancare”. Secondo Cristina Brasi, “bisogna sempre capire quando scatta questa presa di coscienza, cosa è maturato davvero in quell’uomo. Andare da un sacerdote, come è capitato al pompiere reo confesso, vuol dire probabilmente non avere più prospettive. Trovarsi in un vicolo cieco e dunque provare una irrefrenabile necessità di condividere un peccato grave perché da soli e in questo stato non si è più in grado di vivere”.